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L’importanza di quella cosa chiamata dibattito

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Ora qualcuno mi darà dell’oscurantista, della pessimista, di quella che somiglia ai tizi che sono contrari agli ebook e so che qualcuno mi dirà “non si può fermare il progresso! SVEGLIAAAAAAA!!!!1111!!!UNDICI!
Sono consapevole di tutto ciò, e sono pronta a difendere con le unghie e con i denti la mia opinione.

Anche perché è proprio questo il punto.

Si è fatto un gran parlare, negli ultimi tempi, di come sia cambiato il nostro modo di leggere, e ci hanno detto che non ce ne dobbiamo preoccupare ma piuttosto che dobbiamo adattarci.
Ecco, il problema secondo me non è il cambiamento del modo di leggere. Il problema è l’assenza del dibattito.

Ma come, mi direte voi. In rete non si fa altro che parlare, parlare, parlare, parlare, parlare, parlare e ancora parlare, e soprattutto lo si fa con toni che quelli delle risse da ubriachi nei bar al confronto sembrano dolci ninne nanne cantate ad anime innocenti, tanto da sentire qualcuno costretto a prendere seri provvedimenti sull’hate speech.

Ecco. Anche questo fa parte del punto, perché quello non è dibattito.

Il dibattito non è una gara a chi urla più forte.
Il dibattito non è una gara a chi ha più like e più condivisioni su Facebook, non una gara a chi ha più retweet.

Io ci vivo, in mezzo a ‘sta roba, mica la disprezzo. Disprezzo piuttosto, perché i social network sono uno strumento che dovrebbero portarci a ottimizzare il lavoro fatto.
Qualcuno ha parlato della morte dei blog, della fine dei forum, così come un tempo sono morti i newsgroup e compagnia cantante.
E si è detto che questa morte è un’evoluzione naturale a favore dei social network, esattamente come l’avvento di blog e forum sono stata l’evoluzione naturale dei newsgroup.

"È finita, bellezza. Voi blog siete morti."

“È finita, bellezza. Voi blog siete morti.”

Siamo sicuri? Siamo proprio sicuri sicuri di questo?

Mentre blog e forum servivano – e servono tuttora – a creare uno spazio di condivisione, di scambio, di – appunto – dibattito, servono a creare qualcosa che rimanga nel tempo, i social network sono effimeri. Sono veloci, scorrono a velocità pazzesca, quello che è una novità ora domani è già roba vecchia e se lo condividi ti viene detto “ma perché ne parli ancora?”

È tutto veloce, nei social, ed è anche tutto esasperato all’ennesima potenza.
È tutto un grido, un grido di aiuto, un grido di battaglia, un grido di disprezzo, un grido al “come stanno andando male le cose”, un grido di qualcosa di negativo.
È sostanzialmente una grossa valvola di sfogo, è come urlare nel vento le proprie parole e sperare che qualcuno le ascolti, è come mettere un messaggio in una bottiglia e sperare che qualcuno lo trovi.
Il problema è che qualcuno che ascolti e trovi il messaggio c’è. Eccome se c’è: hai quattromila, cinquemila amici su Facebook; diecimila fan sulla tua fanpage, altri tremila follower su Twitter.
Quando raccogli like, condivisioni, dozzine di commenti di risposta (positivi, negativi, brevi critiche, brevi approvazioni), decine di retweet, gente che ti mette tra i preferiti senti dilagare una soddisfazione, dentro di te. Pensi “qualcuno mi ascolta, allora, qualcuno mi sta ascoltando”.

Sì. C’è un vastissimo pubblico pronto ad ascoltare. Pronto a dire “sono con te, hai ragione” quando c’è qualcuno che si lamenta – non entro nel merito della lamentela, ce ne sono di giustissime, di insipide e di senza senso; parlo in generale – e pronto a indignarsi insieme a te (magari a comando).

Il problema non è trovare un pubblico. Il problema è trovare un pubblico con cui costruire.

Facebook e Twitter e i social network in genere sono degli ottimi mezzi di comunicazione rapida; sono anche delle grosse casse di risonanza: quando pubblico un articolo sul blog e lo condivido sulla fanpage del WD e sul nostro account Twitter i visitatori raddoppiano o triplicano. Ed è questa la funzione, al di là degli scopi di mera condivisione personale, che dovrebbero avere: quella di cassa di risonanza.

Perché le discussioni su Facebook non portano a nulla. A nulla, eh? Dico proprio a nulla.

Sicuramente avrete partecipato a una discussione su FB con più di venti commenti. Spesso si arriva a 50, 100, anche 200 commenti. Magari è successo una settimana fa, magari un mese.
Fate una prova: andate a ritrovarla.
E se si stava parlando di qualcosa di serio controllate come sono i toni: calmi, pacati? O ci si altera in fretta? E, ancora, riuscite a estrapolare qualcosa di costruttivo da quella lunga, lunghissima discussione? E se anche riuscite a farlo, a tirarne fuori qualcosa di buono, è di facile consultazione? Oppure occorre leggere tutti i 100, 200 commenti per arrivarne a capo? E di nuovo, quanto sono lunghi i singoli interventi? Quelli brevi saranno tantissimi, quelli lunghi sono difficili da leggere. Facebook stesso superato un tot di caratteri ci piazza un link e dice “continua a leggere”.
Fino a poco tempo fa se superavi il limite di caratteri dovevi spezzare in due il messaggio.

Tutto questo perché? Perché Facebook – e i social network in generale – non sono adatti al dibattito. Non sono adatti a costruire. Sono degli ottimi mezzi di comunicazione, ma hanno altri scopi e altri fini. E non si dovrebbero confondere.

Facebook e Twitter non dovrebbero portare all’abbandono di blog, forum e community; sarebbe come pensare che una matita faccia smettere di usare una penna. Perché? Sono cose che hanno funzioni diverse. Perché confondere l’uso della matita con quello di una penna? Perché scrivere una cosa importante, che deve rimanere, con una matita, il cui tratto sbiadisce e può essere cancellato in fretta?

Come dicevo, io vivo in mezzo a FB e Twitter. E non li disprezzo affatto. Ci sguazzo, praticamente, ma se c’è una cosa che odio è quando condivido un post e si sviluppa una discussione sotto al post stesso, lì, su Facebook.
Ma perché? Commenti magari lunghi e articolati, che vengono pubblicati direttamente sotto a uno status che, dopo poche ore, nessuno leggerà più.
Commenti interessanti, che espongono idee interessanti, che spariranno nell’etere e che nessuno vedrà più.

Ma dico, perché? Perché? La pagina l’avete aperta, l’articolo – per commentare – lo avete letto; ormai un sacco di blog permettono l’accesso tramite Facebook, quindi non c’è nemmeno l’immane fatica di mettere nickname, mail ed eventualmente il proprio sito per commentare, fa tutto il blog.

Vedo blog che un tempo ricevevano centinaia di commenti ridursi a qualche decina – quando va bene. Eppure la ricchezza di un blog non sta – solo – in quello che dice l’autore dell’articolo. Altrimenti faremmo articoli chiusi e bon, addio. O ci rivolgeremmo ad altri format, come ai giornali (e anche lì, quanto non si sente la mancanza di poter esprimere la propria opinione? Perché c’è ancora gente che si prende la briga di scrivere una lettera al giornale o al direttore e qui siamo al commentare su Facebook?).
La ricchezza di un blog sta nella possibilità di ricevere spunti, riflessioni e condivisioni da parte di chi legge.

Tu, blogger, hai scritto una cosa che io ritengo una boiata? Lo posso dire.
Chi arriva dopo legge quello che hai scritto tu, quello che ho scritto io e pensa che entrambi abbiamo parzialmente ragione? Ce lo può dire.
Un quarto arriva, legge il blogger, me e l’altro tizio e pensa che ci siano dei punti da aggiungere? Lo può fare.
E alla fine si avranno discussioni bellissime, ricche e interessanti. Si creano cose. Per dire, qui si è creata una cosa bellissima, dai commenti su di un blog.

Per tutto questo, io ho sempre avuto una passione ancora più grande per i forum (e si vede anche da Writer’s Dream stesso: mentre sul blog spesso non ci sono nuovi articoli il forum ribolle sempre di nuovi post e di nuovi contenuti) perché sono ancora più orizzontali.
Alt. Fermi tutti. Lo so, ne ho la matematica certezza che ora qualcuno dirà “orizzontalità significa che ognuno può dire le boiate che vuole”. No, cari miei.
Orizzontalità significa che si ha il diritto di dire la propria opinione, sempre e comunque, senza guardare in faccia chi si ha davanti, che sia l’ultimo dei barboni o il supremo presidente del mondo.
Ma – sì, c’è un ma, ed è grosso come una cattedrale – sulla base del rispetto reciproco.

Un forum e un blog hanno dei filtri. E vengono applicati con criterio: se tu, utente X, insulti utente Y, ti viene tirato un ban con un bazooka (o baNzooka?) e in quel forum non ci rimetti più piede.
Su Facebook puoi insultare chi ti pare e sei libero di andare a molestare qualche altro utente.
Se una discussione su un forum degenera c’è chi interviene a riportarla alla civiltà. Su Facebook l’unica alternativa è il blocco dell’utente molesto da parte di chi viene “molestato”. La piattaforma, Facebook, non interverrà mai per riportare sui binari una discussione, né caccerà l’utente dal social network.

Sono metodi operativi diversi di mezzi di comunicazione diversi che, soprattutto, hanno scopi diversi. E ribadisco: non ha senso cercare di usare un calendario come mensola. Il calendario è di carta, non ti regge il peso dei libri/soprammobili/pentole che ci volevi mettere sopra.
Crolla tutto, e se ci provi una volta e crolla, ci provi una seconda e crolla, perché ti ostini a riprovarci?

Ma l’articolo si chiama “l’importanza di quella cosa chiamata dibattito” e io, finora, ho detto solo perché non si può dibattere su Facebook. Torniamo quindi al punto della questione: l’importanza del discutere.

Discutere è fondamentale. È fondamentale dare informazioni, dare opinioni, scambiarsele, confrontarsi; è attraverso il confronto reciproco che si ha una crescita, una crescita reciproca. A meno di star dialogando con un muro, uno scambio tra più persone porta sempre a un arricchimento, di qualsiasi genere.
E, attraverso quell’arricchimento, si possono creare cose. Cose belle, cose meno belle, cose utili o cose meno utili; ma si crea, si scambia, si prova e ci si mette in moto. Si provano a fare cose, o a cambiarle. Si prova a renderle migliori.
Parlare serve. Parlare serve tanto, non si parla mai abbastanza.

Si dice che si parla troppo e si fa troppo poco. Io penso che si parli troppo nel modo sbagliato. Il modo sbagliato è quello distruttivo: stiamo sempre cercando di demolire, distruggere, abbattere.
Le cose che non vanno sono tantissime; ma una volta demolite cosa si fa? Si rimane a guardare le macerie?

Pensate ai talk show – istituzione che, personalmente, detesto: qual è la loro utilità? Di mero intrattenimento per lo spettatore che, finita la trasmissione, andrà su Facebook a lamentarsi.

Non mi riferisco solo alla politica. Parlo di ogni cosa. Qui si parla di editoria, e quante volte abbiamo visto che nell’editoria le cose non funzionavano? Non solo, continuano a non funzionare, e anzi, peggiorano.
E badate bene che non sto dicendo nemmeno che sfogarsi sia sbagliato. Che uno sfogo, un rant come si chiama nel gergo di una parte di rete, sia inutile o dannoso: tutti ne facciamo, online e offline, e continueremo a farli. Ed è giusto così.

Ma continuiamo a sbagliare quando continuiamo nella logica della distruzione. Abbiamo bisogno di alternative, a quelle cose che vogliamo distruggere e abbattere; e se non possiamo costruirle da soli – perché ci mancano i mezzi, che spesso sono banalmente i soldi – possiamo parlarne e provare a realizzare delle alternative alle alternative, qualcosa che possiamo gestire.

Io ho creato Writer’s Dream, quando volevo un luogo dove parlare di editoria. Quando ho scoperto dell’editoria a pagamento ho messo in piedi la campagna NO EAP per informare tutti quelli che potevo informare.
Alessandra Zengo ha creato Speechless, quando ha visto che non c’erano riviste letterarie che rispondevano ai suoi criteri. Ha creato Speechless Books, quando ha visto che di bei libri ne trovava pochi.
Nativi Digitali hanno fondato una casa editrice (digitale, dal nome non ve lo aspettavate, vero?) quando hanno pensato che fosse il momento di mettercisi in prima persona, per portare avanti le loro idee.

Potrei continuare a lungo, perché di esempi positivi ce ne sono tanti.

Chiudo questo lungo post (più di 2000 parole, chissà chi riuscirà ad arrivare fino alla chiusura) con un invito: parlate, dibattete, confrontatevi. E fatelo nei luoghi giusti, coi mezzi giusti, con le persone giuste. Lamentarvi del caro benzina con il portinaio del vostro palazzo non servirà a nulla; borbottare in gruppi privati che l’editoria fa sempre più schifo non cambierà le cose.
E soprattutto: costruite, non distruggete. O perlomeno: distruggete, e poi costruiteci sopra.


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